Essere indigeni nel secondo Paese con più contagi al mondo

In Brasile, secondo il Ministero della Salute, tra il 19 e 20 maggio ci sono stati 17.408 casi accertati da Coronavirus e i decessi registrati in un solo giorno sono arrivati a più di 1.000. I dati relativi ai casi confermati (374 mila) e ai decessi totali (23 mila) ci dicono che il Brasile è diventato in poche settimane il secondo Paese al mondo per numero di positivi al Covid-19 dopo gli Stati Uniti.

Purtroppo i dati ufficiali non sono una fotografia completa della situazione brasiliana. I tamponi sono insufficienti, dilaga la disinformazione e molti esperti hanno denunciato la mancanza di sanzioni previste per chi viola la quarantena. Tutto questo si aggiunge alle dichiarazioni negazioniste del Presidente Jair Bolsonaro e dei suoi sostenitori, oltre al licenziamento del Ministro della Sanità a causa del suo sostegno alle misure di lockdown.

Nello Stato di San Paolo il cimitero pubblico di Nossa Senhora Aparecida ha raso al suolo un’area di foresta tropicale per scavare enormi fossi comuni per le sepolture. Mentre lo Stato di Amazonas, con la sua capitale Manaus, il cui governatore Wilson Lima ha minimizzato il virus, è stato identificato come quello più colpito. Uno Stato fra più poveri del Paese, abitato da numerose popolazioni indigene completamente abbandonate dalle autorità governative.

Per questo motivo alcuni leader dei villaggi Yanomani hanno invitato le popolazioni a rifugiarsi nella foresta Amazzonica per allontanarsi dal rischio del contagio, una strategia già messa in atto durante la dittatura militare autoritaria che ha governato il Brasile dal 1964 al 1985. Mentre i membri della tribù Saterè Mawè hanno preparato degli infusi a base di corteccia di alberi, con virtù anti-infiammatorie, tè, menta, mango, aglio e zenzero. Due metodi di autogestione e autoregolamentazione per cercare di ridurre il contagio, difficile da contenere nei villaggi indigeni dove c’è un alto numero di persone che vivono in alloggi comuni e si condividono molti oggetti di vita quotidiana e cibo.

Inoltre le popolazioni indigene devono affrontare anche un altro problema oggi passato in secondo piano: la deforestazione. La maggior parte delle attività economiche e commerciali sono state bloccate, ma il disboscamento massivo no, non ha subito rallentamenti, anzi è aumentato del 64% nel mese di aprile rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, analisi effettuata dai ricercatori dell’INPE (Istituto nazionale di ricerche spaziali) grazie alle immagini satellitari sul monitoraggio della foresta Amazzonica.

La situazione descritta fotografa una tragedia che non ha precedenti e che viene raccontata nella lettera di una professoressa di São Gabriel da Cachoeira che ci ha condiviso Padre Roberto Cappelletti, missionario in Brasile da più di 7 anni:

L´arrivo del Coronavirus a São Gabriel, il municipio più indigeno del Brasile, era la cosa più temuta. Tutte le istituzioni si sono date da fare per proteggere il municipio (che ha una estensione uguale al Nord Italia) e la sua popolazione. Già dal primo momento sapevamo che non avevamo un ospedale per attendere alle richieste dei possibili contagiati di Covid-19.

Purtroppo non fu possibile fermare l´avanzata del virus; nonostante i decreti dello Stato di Amazzonia e del Municipio, che hanno chiuso la circolazione di barche, lance e aerei per passeggeri, non si è riusciti a contenere il virus, in quanto sono continuate ad arrivare persone clandestinamente, sia da Manaus, sia da tutto il Brasile. E proprio questi incoscienti hanno portato il virus in terra indigena.

Quando è uscita la notizia del primo caso positivo, molti hanno capito che la situazione poteva precipitare, mentre altri hanno continuato a fare file per le strade, davanti alle banche, per ricevere l´aiuto di emergenza del governo.

Io, particolarmente, ho vissuto il peggior momento della mia vita, perché ho visto amici e colleghi di lavoro sentendosi molto male, con difficoltà di respirazione. Uno di loro, un mio amico professore di 49 anni, non ce l´ha fatta, ed è morto dopo 5 giorni di coma in ospedale a Manaus.

Da quel momento, come professoressa e con nel cuore la voglia di mettermi a servizio per il bene del mio popolo e specialmente delle famiglie dei miei alunni, mi sono resa disponibile per andare per le strade della città di São Gabriel e nei villaggi più distanti, per aiutare in una campagna di sensibilizzazione contro il Covid-19. E a tutt´oggi continuo questa che sento come una missione importante. In tantissimi villaggi non c´è acqua, non c’è possibilità di distanziamento sociale e tanto meno di igienizzante o mascherine.  Quello che fa più bene da un lato, ma che preoccupa dall´altro, è il modo di vivere dei più piccoli, i loro sorrisi, la loro poca attenzione a lavarsi… sono così, siamo così, siamo indigeni, siamo di questa terra, questo virus ce lo hanno portato da lontano e ora abbiamo paura. Sappiamo di avere difese immunitarie basse, di non avere possibilità di trovare un letto in ospedale… sappiamo che dobbiamo rimboccarci le maniche e lottare, a volte a mani nude, contro questo mostro invisibile. Dicono che sarà una ecatombe di morti qui da noi, io non ci voglio credere, voglio che io e i miei fratelli e sorelle Baniwa, Tukano, Tariano, Baré, Yanomami, Dessano, Hupda ci rendiamo conto che solo rispettando le regole di isolamento e di igiene potremo vincere questa battaglia. Non dimenticatevi di noi indigeni nelle vostre preghiere.”

Leggi anche, Il Covid-19 arriva in Amazzonia, ma gli indios si difendono

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