I giovani: la vera ricchezza dell’Angola

In centro a Luanda uno dei grattacieli è chiamato il “Palazzo dei diamanti” perché l’Angola è uno dei massimi produttori di diamanti, oltre ad essere insieme alla Nigeria il più grande produttore di petrolio dell’Africa. Anche nel barrio di Lixeria c’è un bel palazzo dei diamanti ed è dei salesiani! Il nostro palazzo dei diamanti lo si può vedere da tutto il quartiere e anche ben oltre. Si trova sulla sommità più alta del pendio ed è alto cinque piani. Spicca nettamente in mezzo alle casupole e alle baracche che lo circondano. È la scuola, che accoglie quotidianamente seimila allievi dalla primaria alle superiori che danno accesso all’università. Nella sede centrale gli allievi si susseguono in tre turni, non ci sono aule per tutti e dunque si comincia alle 7.30 del mattino con i più piccoli, si continua con quelli delle medie al pomeriggio e si finisce alla sera alle 22.30 con gli allievi delle superiori. Ogni cinque ore migliaia di ragazzi e ragazze si alternano sui medesimi banchi di scuola. Ma la scuola non è l’unica risposta dei salesiani a questa gente che non ha nulla, da nessuno. C’è il presidio sanitario portato avanti da due brave suore brasiliane e c’è l’asilo per i piccoli che non hanno nessuno che possa accudirli e che razzolerebbero nella spazzatura insieme ai cani se non ci fossero i salesiani a dar loro un cortile e delle educatrici che li tengono impegnati durante l’orario di lavoro dei genitori. C’è la formazione professionale per i giovani che vogliono imparare un mestiere e spendersi con una professione concreta. Sono appena avviati i corsi di carpenteria, frigorista, alberghiero, saldatore, segreteria d’azienda, informatica. C’è l’enorme parrocchia con cinque cappelle dislocate nelle località più lontane, dove i ragazzi che frequentano la catechesi sono più di cinquemila. Ci sono infine le strutture della rete di solidarietà sociale a vantaggio dei ragazzi di strada. Purtroppo anche in questa enorme città i ragazzi soli ed abbandonati continuano a crescere. Scappano di casa perché i genitori si sono divisi, oppure vengono allontananti dai parenti quando combinano qualche guaio in famiglia…. spesso sono orfani con nessuno che possa o voglia occuparsi di loro.

Visitiamo un centro di accoglienza che nel percorso di recupero costituisce la seconda tappa. Dopo il primo aggancio con i salesiani, i ragazzi che vivono in strada sono invitati a “stare con Don Bosco”, cioè ad abbandonare la banda di amici e i rifugi di fortuna dove vivevano, per essere accolti in una casa famiglia. Non è facile per un ragazzo che ha imparato ad arrangiarsi da solo per mesi, a volte per anni, accettare di vivere in una casa con regole da rispettare.

Quando arriviamo i ragazzi ci accolgono con un canto preparato per noi dai loro educatori. Ma in un angolo un ragazzino con la maglietta rossa, non aveva di più di dieci anni, non cantava. Teneva la testa sulle ginocchia e si vedeva che stava male. Il responsabile di questo servizio di prima accoglienza, un giovane angolano di trentatré anni, novello Don Bosco, lo avvicina, gli alza il volto che resta fisso a terra, e chi chiede come va. Questa domanda scatena nel piccolo un pianto irrefrenabile e lacrime che sgorgano a fiumi e corrono veloci sulle guance nere. L’educatore non dice nulla, ma lo stringe a se come un padre e gli accarezza la testa e le spalle, finché il bimbo smette di piangere, si asciuga gli occhi e con un sorriso si inserisce nel gruppo dei compagni. È proprio vero che la miglior medicina per guarire la sofferenza è avere il coraggio e la forza di condividerla con qualcuno. La sofferenza e il dolore, quello interiore che fa più male, non ce li può togliere nessuno. Ma qualcuno può condividerli con noi, e questo ci basta per rendere il tutto più sopportabile, per asciugarsi le lacrime e per ricominciare.

Fra le  diverse esperienze di accoglienza, merita di essere raccontata quella della signora Alberta, “zia Berta” per tutti. Questa donna angolana, di una cinquantina d’anni ben portati, ha cinque figli suoi e ne ha adottati altri tre. Il marito se n’è andato di casa da un bel po’… non che questo le manchi, visto che creava più problemi lui dei suoi numerosi figli. Zia Berta e’ un generale d’armata che con il solo sguardo tiene a bada questa numerosa famiglia, a cui ora si è aggiunta anche la nipotina, figlia della sua figlia maggiore. Zia Berta e’ anche nonna! Ci ha raccontato come è cominciata l’avventura con il primo figlio adottivo, Carlos, che ora ha diciotto anni ed è più alto di sua madre. Era un bambino di 27 giorni quando i salesiani le hanno chiesto se se la sentiva di fargli da mamma perché la madre naturale era morta delle conseguenze del parto. Il padre del piccolo si era scusato ma non se le sentiva di prendersi cura di questa creatura fragile e denutrita. Zia Berta prende il fagottino in braccio, respirava affannosamente e si vedeva che la madre nei pochi giorni di vita non aveva avuto latte a sufficienza per sfamarlo, e dice fra se: “io faccio la mia parte e Dio farà la sua, vediamo cosa succede”. Succede un autentico miracolo! I primi giorni sono stati difficili e incerti. Vive o muore questo scricciolo? Passa una settimana, poi un mese, infine tre mesi ed è ancora vivo. Zia Berta non teme più per Carlos. Vivrà e diventerà grande, si ripete fra se’. E così l’abbiamo incontrato noi. Un ragazzo buono, mite e servizievole che fa parte di una grande famiglia dove figli naturali e adottivi sono tutti uguali e tutti condividono quel poco che zia Berta riesce a procurare per tutti. Zia Berta, una forza della natura, che ti accoglie sempre con il sorriso e ti stampa due grossi baci sulla faccia quando ti incontra. Che portento!

Giampietro Pettenon, Presidente di Missioni Don Bosco

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