Il Brasile messo alla prova dalla pandemia Covid-19

“Per la vastità del territorio e per la densità di popolazione nelle città, il Brasile è purtroppo destinato a essere ai primi posti per il bilancio della pandemia Covid-19. A rendere fertile il terreno per il contagio sono anche la debolezza del sistema sanitario e le condizioni di povertà della maggior parte della gente. Igiene, alimentazione, condizione abitativa sono anche in questo caso fattori determinanti” spiega padre Roberto Cappelletti, missionario salesiano in Amazzonia.
Ha vissuto in Italia da febbraio a maggio, bloccato dall’assenza di voli di rientro dopo che era stato chiamato a partecipare al Capitolo Generale della congregazione che si è svolto in quel periodo a Valdocco. Non ha mancato tuttavia di tenersi in stretto contatto con i confratelli dell’ispettoria di Manaus, capitale dell’Amazzonia brasiliana.
Da Bolzano, dove si trovava con i suoi familiari, ha risposto alle nostre domande.

Quale risulta essere oggi la situazione?

Per quanto riguarda Iauareté – dove padre Cappelletti ha vissuto gli ultimi cinque anni – la situazione sta peggiorando a livello di contagi. Si sperava che il virus non giungesse fino a lì, ma purtroppo per vari motivi ce l’ha fatta. Non secondario in proposito è stato l’arrivo di medici e di infermieri mandati a soccorrere la popolazione, i quali però erano stati contagiati nelle loro città di provenienza, San Paolo, Brasilia e altre.
Senza volerlo, anzi volendo fare il bene, essi hanno portato il virus nelle cittadine e nei villaggi come Iauareté, ai bordi della foresta. A São Gabriel da Cachoeira sono almeno 1.000 i contagiati in una cittadina di 45.000 abitanti. Fino a ieri (27 maggio 2020; n.d.r.) i morti erano 21, però non si è certi che la causa sia stata per tutti l’epidemia perché non c’è stata possibilità di fare i test a tutti.
Nell’intera Amazzonia brasiliana i deceduti sono circa 35.000, dei quali 15.000 nell’area interna alla foresta.

Come ha reagito il sistema sanitario?

A São Gabriel da Cachoeira la situazione è difficile per quanto riguarda le cure. C’è solo un ospedale militare che, fino a quando ha potuto, ha cercato di affrontare la situazione con anche bravi medici. Poi l ‘emergenza è diventata enorme e quindi c’è stata la richiesta di aiuto a organizzazioni di tipo sanitario, come Espedicionarios de salude, un ente brasiliano che opera volontariamente in zona indigena. Gli aiuti ci sono però sono tante le esigenze e poche le strutture agibili. Molti preferiscono non andare in ospedale, negli ambulatori o nei dispensari medici, ma rimanere a casa considerato il rischio di essere contagiati nei pronto soccorso o nelle sale d’attesa.

La popolazione indigena in particolare, come ha reagito?

Molti di loro stanno facendo uso di medicinali tradizionali che vengono dalla natura: usano alcuni tipi di alberi, la corteccia di altri, delle piante. C’è un salesiano che è stato presente al sinodo sull’Amazzonia, padre Giustino dell’ispettoria di Manaus, che è indigeno, di etnia tuyuca. È un grande antropologo ed è considerato un pajé (uno sciamano; n.d.r.), e anche lui ha messo a disposizione vari di queste ricette di medicine tradizionali indigene. In molti casi servono anche di fronte al Covid-19 perché questo si presenta in vari gradi e in varie fasi: se viene preso all’inizio, quando ci sono i primi sintomi, si sta vedendo che queste medicine tradizionali funzionano. D’altronde loro hanno una saggezza, una cultura che è millenaria; hanno affrontato altre malattie, come la malaria o la dengue, quindi sanno come affrontare – nel modo migliore possibile per loro – anche l’influenza. È chiaro che quando si arriva a casi più gravi la medicina tradizionale non è più sufficiente per affrontare questo virus.

Può reggere la difesa costituita dall’isolamento?

Il Brasile è territorio di grande scambio. Le città più colpite sono San Paolo, Rio de Janeiro e Manaus:  San Paolo perché è la città più popolata e più industriale in Brasile; Rio de Janeiro perché il carnevale è avvenuto con tutte le sue manifestazioni, sia pure in tono minore, ma con tantissimi turisti, così il virus si è propagato molto velocemente; Manaus perché è l’unico porto franco della Federazione, il distretto industriale dove si fabbricano materiali tecnologici da parte di imprese di tutto il mondo: dal Giappone agli Stati Uniti, lì si fabbricano cellulari, motori per barche, motori per macchine utensili che sono venduti in tutto il Brasile. A Manaus, capitale dello Stato dell’Amazonas, ha avuto molto passaggio di gente che veniva dall’Europa e dall’Asia, e questo ha aiutato molto il virus a propagarsi.
Nelle zone indigene entrano (adesso si spera che non entrino più) persone che venivano non per scopi benefici ma per cercare di trovare minerali, per sfruttare sia la foresta sia il sottosuolo, senza scrupoli. C’è stato anche questo che ha portato il virus a São Gabriel da Cachoeira e in altre zone dell’Amazzonia, lungo il rio Negro, il rio Solimões e altri fiumi.
Queste persone sono entrate anche quando iniziava il lockdown, sono riuscite a entrare per via clandestina, nascondendosi nelle barche. Poi sono state prese, rimandate a Manaus a disposizione della autorità giudiziarie per essere sottoposte a processo.

[ Su questi argomenti don Cappelletti è stato intervistato anche dal programma di Rai 1 “A Sua immagine” di domenica 21 giugno. ]

 

 

I salesiani e la Chiesa che stanno facendo?

A São Gabriel da Cachoeira il suo vescovo e la diocesi, in cui operano 30 sacerdoti dei quali 20 siamo salesiani, ci siamo messi subito a disposizione per aiutare in qualsiasi modo possibile durante questa emergenza. C’è una casa fuori dalla città, si chiama Cachoerina, usualmente usata per ritiri e per incontri: adesso è destinata ad accogliere persone che sono sotto monitoraggio, per constatare se hanno avuto il contagio o meno. Lì sono ospiti molti indigeni, con varie istanze e differenze etniche a cui dobbiamo prestare la giusta attenzione.
Moltissime famiglie praticamente restano senza cibo, senza soldi perché la maggior parte delle persone lavora per strada vendendo i suoi prodotti (farina, pesce, frutta); in questo periodo di lockdown non può uscire in pubblico, e quindi non ha nessun introito. Rimangono senza cibo.
La diocesi con il Collegio statale “San Gabriele” gestito dalle suore salesiane sta facendo sì che moltissimi sacchi di cibo siano consegnati a queste famiglie: farina, riso, fagioli…
Quasi tutti i sacerdoti e quasi tutte le suore hanno preso il virus e l’hanno sconfitto senza dover andare in ospedale: si sono curati a casa con antibiotici, con le flebo, e soprattutto hanno fatto ricorso ai “tè” un po’ particolari che gli indigeni preparano. Anche il vescovo, che ha tenuto un po’ nascosta la sua malattia perché non voleva che la popolazione si preoccupasse, ha superato l’infezione rimanendo in casa.
Più che tanti prodotti chimici, io penso che gli indigeni delle varie etnie abbiano da proporre e da insegnare tante possibilità di cura e di guarigione attraverso metodi naturali e sani, buoni per tutti noi.

In che stato si trova il progetto della casa di accoglienza per i bambini abbandonati a Iauareté?

Ho avute costantemente notizie da Iauareté, mi sento quotidianamente con i salesiani che sono lì. La gente anche nei villaggi ha l’obbligo si stare a casa, ma la loro casa non è che abbia più stanze – il salotto e la cucina – e mezzi di comunicazione a distanza. Soprattutto gli indigeni non sono abituati a stare a casa: la loro baracca, la loro capanna, la usano solo per andare a dormire, poi il resto della giornata lo passano fuori. Ancor più i bambini. Per questo è difficile stare sempre in casa per queste persone. Ci sono pertanto situazioni di famiglie – come anche in Italia è successo, ma lì in grado maggiore – che si sono disgregate, con situazioni di violenza, di alcolismo. Rimanendo a casa tutti insieme i problemi si moltiplicano e chi ne va di mezzo sono soprattutto le donne e i bambini. Eravamo a buon punto nel terminare la costruzione della casa di accoglienza per i bambini, ma con la pandemia si è bloccato un po’ tutto. Già a causa dei trasporti difficili sul fiume le cose andavano lentamente, adesso bisogna aspettare un po’ di più. Gli operai sono a casa tranne il capocantiere, Carlinos, un collaboratore che abita con noi: è lui che cura tutta la costruzione, sta facendo qualche lavoretto da solo, manda avanti per quello che può. Ma confidiamo di concludere l’opera il prossimo anno. Mantenere la fiducia e la speranza sembra un’impresa più difficile nelle condizioni di questi mesi. La sensazione che emerge è che vi sia un disegno di abbandono ulteriore, che moltiplica le potenzialità di morte attraverso gli ingressi illeciti. Io però sono fiducioso. Quando ci sono momenti di grande tensione, di grandi problemi, di grande difficoltà, di rischi per la loro vita stessa, gli indigeni si fanno forza, fanno leva sulle loro origini, sul fatto che la terra è loro. Quelli che sono cattolici fanno molto affidamento sulla fede. Dicono sempre “Grazie a Dio”, “Confidiamo in Dio”. Sentono forte la presenza dei salesiani e delle salesiane lì con loro perché, dicono, “in questo momento non ci avete abbandonati, siete con noi, siete dalla nostra parte”. Ci tengono molto, tantissimo alla nostra vicinanza, e questo è bello. Per questo anch’io, pur sapendo i rischi che potrò incontrare lì, non vedo l’ora di tornare per dire: “Anch’io sono qui, insieme a voi, in questo momento”.

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