Il Covid-19 aggrava la precarietà della gente che vive nel deserto a Korr

Se dell’Africa avete un’immagine di deserto, di capanne sparse, di bambini esili e di mamme che li difendono da tutto nelle loro braccia, allora andate a Korr. Lì troverete un concentrato di questi elementi, molto affascinante per sentire il profumo del continente ma anche molto preoccupante per la sorte delle popolazioni che vagano su quella terra.

Korr (come per un Italiano suona il nome Horr) si trova in una regione nel Kenya del nord, ai confini con l’Etiopia. Il colore dominante è il marrone che vira al giallo, segno inequivocabile della mancanza d’acqua. È il deserto del Chalbi, territorio fratello ad altri due “piccoli” deserti di cui il Kenya è costituito lungo una direttrice nord-sud, lontano dalle verdeggianti zone verso il centro del continente o verso il litorale dell’Oceano Indiano.

Come si possa sopravvivere in quelle condizioni è la domanda che da Europei ci facciamo, raffrontando gli stenti a cui sono sottoposte le famiglie che vi risiedono e le sfide alle quali vanno incontro con una forza che non sapremmo dove trovare.

A sostenerle ci sono fra gli altri i missionari salesiani, don Ndowa Oswin Aidan e don Odwori Philip Augustine che fanno capo alla Casa di Marsabit, capoluogo della Contea. L’emergenza Covid-19 ha peggiorato uno scenario già spaventoso. I Figli di Don Bosco hanno iniziato a distribuire kit alimentari alle 4.085 famiglie disperse su questo vastissimo territorio. Contengono 5 chili di farina di granoturco, 2 chili di zucchero, 3 litri di olio, 5 chili di riso, mezzo chilo di sale, 3 chili di fagioli e 2 chili di piselli secchi.

Il Chalbi è una delle zone più aride dell’Africa, dove non piove quasi mai. La popolazione che vive nella contea di Marsabit è costantemente alla ricerca di acqua: percorrere decine e decine di chilometri al giorno per raggiungere, se va bene, un pozzo, o più comunemente per dissetarsi in qualche grossa pozzanghera di acqua contaminata. Il tasso di mortalità è altissimo per adulti e bambini, fiaccati da fame, sete e malattie. I camion che trasportano cibo si muovono con maggiori limitazioni in questo periodo e ciò comporta un rincaro dei costi per una popolazione già stremata.

È una terra di pastori nomadi che si spostano continuamente alla perenne ricerca di pascoli. Alle donne è affidata l’infinita ricerca di un bene che non sempre trovano; vengono aiutate dai loro bambini, che conseguentemente frequentano la scuola solo saltuariamente compromettendo così il livello e la qualità della loro istruzione.

I salesiani di Don Bosco gestiscono la missione fondata in pieno deserto nel 1980. Dal primo giorno si sono rimboccati le maniche per aiutare la popolazione locale, in particolare le tribù Sambru e Rendire, attraverso la distribuzione di acqua e alimenti multivitaminici nei momenti di maggiore siccità, la costruzione di pozzi e serbatoi di raccolta e purificazione dell’acqua piovana. Hanno costituito anche un dispensario di prodotti medicinali, in collaborazione con le suore indiane di Fatima.

“La gente deve fare anche 60 km per raggiungere il dispensario della missione” ci spiega don Felice Molino, che fa parte del coordinamento della rete salesiana in Kenya, “i più gravi, a dorso di cammello, di asino o spesso sulle spalle dei familiari. La mortalità prenatale e natale è altissima, sia tra i bambini che tra le mamme, generalmente molto giovani”.

A rendere più drammatica una situazione già critica, quest’anno è arrivata anche la pandemia da Covid-19 che ha reso le comunicazioni e le attività logistiche ancora più impegnative. I salesiani di Don Bosco della missione di Korr rappresentano per le famiglie dei dintorni un importante punto di riferimento. “Alla fila di bambini e donne che si allineano con i loro bidoni dietro al rubinetto dell’acqua, si aggiunge un’altra lunghissima fila di chi viene per un po’ di cibo” aggiunge il missionario.

Ora che si sono accentuate le criticità del territorio, i salesiani hanno attivato un progetto di emergenza coprendo un territorio con un raggio di circa 90 miglia, ma non perdono di mira la necessità di operare oltre il presente. Attraverso la cura e l‘alfabetizzazione dei giovani, cercano di costruire un futuro diverso per la popolazione. Nel capoluogo Marsabit c’è una scuola professionale alla quale cercano di avviare anche i figli dei nomadi.

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