Il ritorno dei volontari dai campi estivi della pastorale missionaria

L’esperienza ha prodotto una certezza per i tre giovani della pastorale missionaria partiti volontari per la scorsa estate: si sono resi conto di non poter “salvare” nessuno, di non poter fare cose “grandi”. E non è solo questione del poco tempo a disposizione.

Simona, che è stata in Benin, apre la retrospettiva su questa “formazione sul campo”, ricevuta nel suo caso dalle Figlie di Maria Ausiliatrice che si occupano di bambine da togliere dalla strada per non subire violenze. “La cosa importante è che tu sei lì presente, sei disponibile per le persone in quel luogo e in quel momento” spiega, dopodiché quello che ha compreso e l’ha messa in difficoltà all’inizio è stato riconoscere di essere un po‘ inutile in quel contesto. È questa consapevolezza a costituire il punto di partenza per un cristiano che si pone a servizio, nel suo ambiente e anche in terra di missione. “La visione di noi volontari da parte delle ragazze e dei ragazzi è positiva” osserva Simona: “vogliono stare con te, sono consapevoli che stai dedicando il tuo tempo a loro”. Ma nessuno si aspetta che arrivi il volontario per risolvere un problema, per rispondere definitivamente a un bisogno.

Rafforza questa osservazione Silvia, che è stata in Nigeria per l’estate ragazzi dell’oratorio salesiano. “Non è così scontato che siano interessati a te. Non sei certo l’unico ‘onibò’ (il ‘bianco’) che hanno visto” sottolinea. Tuttavia sei sempre un europeo da guardare con curiosità, in qualche modo ti riveriscono, e questo ti fa sentire accolto”. Concorda sull’idea di non essersi sentiti particolarmente utili in quel contesto, ma questo era stato anche spiegato da don Riccardo, il salesiano che ha accolto i volontari al loro arrivo. “La vostra presenza qui non sarà determinante, ma sarete osservati dai bambini e dalla gente: conterà molto lo stile con il quale farete le cose”.

Se il primo passo dei volontari è stato un sano bagno di umiltà, i successivi sono stati la scoperta continua di modi inaspettati di pensare e di fare. Michele che è stato in Romania, ha percepito anche la particolarità del periodo estivo per gli stessi abitanti della località in cui ha fatto servizio. “È il tempo del ritorno in patria degli emigrati. Il mese di agosto da quelle parti è il più fitto di matrimoni” evidenzia per rimarcare il senso di straniamento in cui si sono trovati i volontari ma anche le persone della missione. “C’è qualcosa di paradossale già nel fatto di trovarti all’estero e di parlare in italiano con i ragazzi che vengono all’oratorio”. I genitori sono rimasti in Italia per lavoro e i figli nelle vacanze scolastiche vanno a stare dai nonni. Situazioni paradossali: familiari che si capiscono con fatica, ragazzi magari malvestiti ma dotati dello smartphone per comunicare con le famiglie all’estero, frizione continua fra atteggiamenti contradditori: persone che vivono le sofferenze di una separazione forzata e persone che sognano di lasciare il loro Paese. “Europei come noi” osserva Michele “che non percepiscono allo stesso modo nostro l’appartenenza a una identità comune. Non li tocca il fatto di essere cittadini dell’Unione, ma al contempo se potessero molti di loro lascerebbero subito la Romania per andare in un altro Stato del continente.”

Sullo sfondo dell’esperienza dei volontari si profila quella che è la questione cruciale del nostro tempo: la migrazione di massa a seguito della diseguaglianza economica che penalizza grandi regioni del pianeta. Se per un rumeno lasciare la propria terra è una soluzione praticabile con relativa facilità, per un nigeriano essa comporta valutazioni molto più complesse. “Con i giovani che abbiamo incontrato non abbiamo parlato di questo, ma dalle loro parole ho percepito che hanno il mito dell’Europa, sanno che facciamo parte della parte ricca del mondo” commenta Silvia. “Nessuno mi ha dato l’impressione di volersene andare dal Paese perché lì stia male, è piuttosto l’esigenza di cercare condizioni migliori per realizzarsi”. Da qui la richiesta di frequentare università nel Nord del mondo, di cercare lavori in Inghilterra o negli Stati Uniti. “Pensano a queste prospettive convinti di dover seguire le vie legali, sono sensibilizzati sui rischi delle partenze con i trafficanti di esseri umani” precisa. Forse il campione statistico incontrato da Silvia è composto da giovani che hanno a che fare con la campagna “Stop Tratta”.

Anche nel Benin gli studenti dell’istituto professionale, basandosi sullo stereotipo che “il bianco sta bene”, hanno manifestato a Simona il sogno lontano di andare in Nord America: “un sogno lontano e irraggiungibile per loro, nelle condizioni in cui si trovano”. Ma sembra che questo tenga vivo il desiderio di migliorarsi.

“Fai attenzione a non creare illusioni o attese” è stata la raccomandazione ai volontari, e Michele ne ha toccato la fondatezza incontrando i giovani rumeni: “A nessuno ho detto che ci si saremmo potuti rivedere in Italia perché questo poteva generare false speranze”. C’è stato chi in passato ha preso su serio quello che per noi è un normale ‘arrivederci’ per la promessa di una sponda nel avesse deciso di emigrare.

L’esperienza che hanno vissuta i “nostri” tre volontari potrebbe sembrare un rovesciamento totale di prospettiva della missione: non l’invio di esperti che vanno “ad aiutare” ma il ritorno di testimoni che raccontano quel che hanno visto. Nei loro occhi condizioni di vita poco o per nulla prese in considerazione nella nostra società che però guadagnano attenzione attraverso l’opera silenziosa di tanti costruttori di ponti di solidarietà.

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