Le due fasi della missione di don Giacomo Corrado in Amazzonia: indio e coloni

Quando per andare in Brasile lasciò il suo paese natale, Diano d’Alba in provincia di Cuneo, don Giacomo Corrado subì un trauma. Dalle campagne langarole fatte di colline che si perdono a vista d’occhio come un grande mare, giunse missionario in Sud America. Parliamo dell’anno 1964, lui aveva 23 anni.

Si trovò in un villaggio, imprigionato fra la foresta e il fiume. Il mondo contadino al quale era appartenuto (con il padre falegname) era culturalmente distante ben più degli 8.500 chilometri di percorrenza in linea d’aria fra Piemonte e Amazzonia. Abituato a muoversi in tutte le direzioni che millenni di storia avevano coperto di strade e di sentieri, per don Giacomo l’unica via di uscita dal villaggio era la navigazione sul Rio Negro, per arrivare in altri villaggi. O a Manaus, città che da allora a tre anni sarebbe diventata porto franco per i commerci e per l’insediamento di industrie, scelta che avrebbero cambiato il volto dell’intera regione.

Con la mentalità di quegli anni, l’azione missionaria che gli era chiesta era quella di evangelizzare gli Indios senza andare troppo per il sottile: insegnamento catechistico nella tradizione cattolica, sostegno educativo secondo il carisma affinato negli oratori italiani, amministrazione dei sacramenti. Azione che con gli occhi di oggi ci appare come una pressione che comprime l’identità originaria. “Noi salesiani siamo stati accusati di non rispettare la cultura delle popolazioni native” riconosce don Giacomo, “anche all’interno della Chiesa abbiamo registrato qualche diffidenza, poiché abbiamo puntato sulla civilizzazione delle popolazioni con le quali siamo entrati in rapporto”. Tuttavia oggi che l’invasione della foresta per lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo da parte di coloni, minatori e grandi imprese appoggiati dal governo brasiliano si è fatta più dilagante, emerge finalmente l’utilità dell’azione formativa. Don Giacomo fa una chiara osservazione, fondata sulla visione prospettica di oltre 50 anni di missione: “Le tribù non aiutate dai missionari sono rimaste marginalizzate e indifese; mentre quelle dove sono sorte le nostre scuole, e oggi i docenti sono gli stessi indigeni, si difendono meglio”.

Don Giacomo ha visto nei decenni consumarsi il territorio in terra per l’allevamento del bestiame: dove c’erano alberi oggi c’è una prateria dove pascolano le vacche allo stato brado. I nuovi abitanti sono famiglie del sud del Paese, trasferitesi secondo programmi governativi: sono persone di origini prevalentemente italiana e tedesca. Allevano per esportare carne in Cina e in Giappone, oltre che soddisfare la crescente domanda interna alla confederazione brasiliana.

Questi sono divenuti i destinatari dell’azione dei missionari: per metà cattolici e per metà protestanti, si tratta di cucire anche fra questa gente la rete di relazioni e accogliere la loro domanda religiosa. “Nascono nuove città, e anche quelle storiche crescono con ospedali, banche e chiese” sottolinea don Giacomo, osservando che “la popolazione bianca ha occupato tutta la regione abitata in precedenza dagli Indios”.

La sede oggi affidata a questo missionario di lunga esperienza è nello stato di Rondonia, ai confini del Mato Grosso. Aiuta il parroco, soprattutto nelle confessioni, porta la competenza di fondatore e di direttore di scuole professionali. “Non c’è la pastorale per gli indigeni, il loro numero è irrilevante, di loro non si parla molto. In passato invece i salesiani avevano l’incarico da parte delle diocesi di partire da Porto Velho per andare nei villaggi” ricorda don Giacomo, e riconosce: “ma non ci sono più le persone di quel tempo”.

Non dà un giudizio politico o economico, né vede lo stato delle cose con nostalgia. È impegnato a capire il presente, fatto di famiglie isolate le une dalle altre, benché costituite dentro cascine che, come un tempo avveniva in Italia, tengono uniti i parenti. “Al massimo si creano dei piccoli borghi, dove costruiscono una cappella dove si va a dir messa. In campagna ci sono più cattolici, mentre nelle città sono diffuse le sette protestanti. C’è qualche spinta al secolarismo, ma la maggior parte di questa popolazione è religiosa” sintetizza don Giacomo.

I coloni hanno sofferto molto quando sono arrivati: “hanno fatto la fame, mancava tutto, hanno faticato. Il governo ha portato l’energia elettrica, anche le case più distanti sono state raggiunte: l’obiettivo è stato quello di urbanizzare il territorio” spiega. “Oggi stanno bene, vivono del loro mestiere di allevatori. C’è anche chi ha molti soldi”. Ai salesiani tocca il compito di formulare risposte nuove, puntare su quello che è loro tipico: lasciare alla diocesi i compiti pastorali in senso stretto e potenziare la scuola professionale, dalla quale possono scaturire anche nuove opportunità di lavoro, come la produzione di confetture con i frutti locali. Occorrerà declinare le attitudini dei salesiani più giovani verso questo modo di intendere il carisma, mentre richiedono una giusta valorizzazione le nuove vocazioni, che stanno emergendo soprattutto nella regione del Rio Negro, tra gli indigeni. A Manaus, centro dell’Amazzonia, c’è l’aspirantato salesiano che le accoglie.

Si prefigura una nuova stagione della presenza salesiana in questa parte di mondo, dove è richiesta una nuova definizione dell’azione missionaria. Don Giacomo Corrado è contento che il Sinodo dedicato all’Amazzonia nel 2019 abbia messo a fuoco le questioni aperte e attende che ne derivino soluzioni aperte a un futuro che faccia i conti con questo presente.

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