“Ogni migrante è una persona come me”: intervista a Mussie Zerai

Abbiamo incontrato Mussie Zerai, che attraverso l’agenzia Habeshia è da anni impegnato nella tutela dei diritti di richiedenti asilo e migranti, al punto da ottenere nel 2015 la candidatura al premio Nobel per la Pace.

Quali sono le ragioni che costringono molti giovani a lasciare i loro Paesi di origine?

Molti decidono di fuggire perché non c’è altra alternativa.  Chiediamoci prima di tutto perché queste persone scappano: perché nel loro Paese una dittatura, c’è mancanza di libertà, di giustizia, di una vita dignitosa? In Eritrea, ad esempio, i giovani sono costretti a un servizio militare a tempo indeterminato. Ma molti non sono disposti a dare 15-20 anni della loro vita, con una paga di 10 euro al mese, al servizio dello Stato perché tutti vogliono costruire un futuro, vogliono realizzare i loro sogni.

 

Ci racconta le tappe del lungo viaggio verso l’Europa?

Il primo ostacolo che i migranti devono affrontare è quello di attraversare le frontiere. Molte persone sono state fucilate nel tentativo di fuggire di nascosto dai militari a guardia dei confini.

Quelli che sono riusciti a uscire dal Paese trovano un altro ostacolo, che sono i trafficanti. Nella zona al confine tra l’Eritrea e l’Etiopia ci sono uomini di un’etnia chiamata Rashaida dediti al traffico di qualsiasi genere, che sia di esseri umani, armi o droga e che sequestrano i migranti per ottenere un riscatto. Se le famiglie non hanno la somma richiesta per pagare immediatamente (si va da 10 a 16.000 dollari a persona), le persone vengono vendute dal Sudan fino nel Sinai. Nel Sinai poi il riscatto richiesto aumenta fino a 60.000 dollari a persona. A chi non è riuscito a pagare è stato fatto l’espianto degli organi. Abbiamo calcolato che tra il 2009 e il 2012 quasi 3.000 persone sono state uccise per mano dei trafficanti, solo nel Sinai.

In Europa si conosce solo o soprattutto quello che accade nel Mediterraneo, ma nessuno parla delle tragedie che ci sono molto prima, dal momento in cui queste persone decidono di partire.

Sarebbe meglio prevenire i tanti morti nel deserto, i tanti morti nella mani dei trafficanti  e i tanti morti nel Mediterraneo, andando alla radice del problema.

 

Quali sono , a suo parere, le prime mosse da fare?

Innanzitutto bisogna trovare una soluzione di mezzo per proteggere queste persone nei Paesi di transito, dove stanno avvenendo abusi e violenze. Abbiamo contato in quegli anni lì 22 centri di detenzione in Libia dove avvenivano orrori:  giovani violentate, ragazzi a cui venivano spezzati gli arti o resi paralizzati, donne incinte legate come salami, picchiate fino a procurare loro aborti. Questo succedeva nei centri di detenzione in Libia.

L’Europa finirà per diventare complice di questi abusi, perché ciò è in totale violazione delle convezioni internazionali, da quella di Ginevra a quelle dei diritti umani dell’Unione Europea.

 

Qual è la situazione nei campi profughi?

Esistono già i campi profughi in Sudan, in Etiopia, però chi ne garantisce la sicurezza? Abbiamo calcolato che 4.000 minori sono scomparsi dai campi profughi del Sudan: non sappiamo che fine hanno fatto, in quali giri di prostituzione, di pedofilia, di traffico di organi siano finiti.

Nei campi profughi nel nord dell’Etiopia abbiamo quasi 80.000 rifugiati eritrei. Questi i loro discorsi: “Tra morire lentamente nel mio Paese e morire tentando la fortuna, io preferisco morire tentando la fortuna”.

Quelli che arrivano qui sono i pochi fortunati, quelli che sono riusciti a racimolare i soldi per pagare il riscatto o i viaggi. La stragrande maggioranza che non ha questa disponibilità di denaro rimane nelle zone di transito o finisce per essere una vittima.

 

In che modo dobbiamo sentirci coinvolti?

L’Italia deve sentirsi coinvolta perché innanzitutto questi migranti vengono a bussare alle nostre porte e il loro diventa per forza un problema anche italiano ed europeo. Non ci si può girare dall’altra parte guardando le persone che arrivano, che rischiano la vita per cercare giustizia e libertà. Come ha detto anche il Papa nella sua prima visita a Lampedusa: “Bisogna cercare di superare questa indifferenza globale” che circonda il dramma dei migranti.

Tu non li vuoi guardare? Vengono loro. Si presentano a dirti “Io ci sono. Io ho bisogno. Non mangiare da solo. Non essere felice da solo. Anche io voglio partecipare alla tua felicità”.

Ogni migrante è una persona come me, che ha la stessa dignità mia, gli stessi diritti, gli stessi sogni, gli stessi desideri.

Se io fossi nato dall’altra parte del confine, cosa avrei chiesto a chi sta da questa? Immedesimarsi nell’altro ci aiuta a ragionare e a capire.

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