Padre per tutto: per l’affetto che manca, per un mestiere da imparare

Per la Festa di san Giuseppe lavoratore, il primo maggio, abbiamo chiesto a don Felice Molino, missionario in Kenya, di farci capire cosa voglia dire “essere padre putativo” di uno dei giovani che frequentano la scuola dei salesiani di Makuyu. Ed essere un padre che si preoccupa di mettere nelle mani del “figlio” una professione spendibile.

John era un ragazzo poverissimo. Veniva nella missione di Makuyu solo nelle feste, perchè lui era del villaggio periferico di Doromo Falls, distante 15 km dalla missione e non c’era alcun mezzo di trasporto. E del resto lui non avrebbe avuto i soldi per salire su un mezzo pubblico. Il papà era mancato e la mamma, carica di figli, tirava a campare anche con qualche soldo che le proveniva dal fatto che insegnava catechismo ai bambini del villaggio.

John aveva frequentato le elementari e le medie nel suo villaggio, ma la scuola era davvero povera sia nelle strutture che nel personale docente, per cui era arrivato all’esame di terza media con una votazione molto bassa. Da poco avevamo iniziato il Centro di Formazione Professionale e lui fu accettato gratuitamente. Veniva a scuola a piedi scalzi ed imparava il mestiere di muratore. Le scarpe erano d’obbligo per la sicurezza, e dovevamo provvedere noi a che lui ne avesse un paio.

John era buono di carattere, intraprendente e di poche parole.

Dopo i due anni di apprendimento, poichè non riusciva a trovare lavoro, lo impiegammo noi stessi, ma non come muratore, bensì come factotum. Era capace di fare di tutto ed a tutto si adattava. Se c’era da zappare nell’orto lui si prestava volentieri e se c’era da andare in cucina, lui c’era. A poco a poco divenne il ragazzo di fiducia della missione. Non era di quelli che spendessero soldi a fumare o ad ubriacarsi. Tutti i soldi erano per l’istruzione dei fratelli e per aiutare la mamma, di salute precaria. Conobbe una brava ragazza e si sposò. Volle che benedissi io le loro nozze: “Tu sei mio papà”, mi disse. Riuscì ad avere un figlio, Peter, poi la natura non gliene diede altri. Avrebbe potuto mandare suo figlio ad una scuola privata per ragazzi della classe media, ma preferì inserirlo al Don Bosco, dove era stato lui, tra i bambini poveri.

John ha avuto una vita difficile, perchè la famiglia di origine era in povertà estrema e, oltre che pensare alla moglie e a Peter, doveva interessarsi della numerosa famiglia di origine. Tentò il salto per riuscire a guadagnare di più: fece un mutuo per acquistare un camion. Lasciò il Don Bosco, ma dopo un anno chiese di rientrare: gli avevano mangiato tutto… la polizia è corrottissima e ad ogni posto di blocco sulle strade bisognava versare una tangente. Non ce la faceva più a pagare il mutuo e alla fine perse anche il camion. Con umiltà e con il desiderio di riprendere in mano una situazione disatrosa, si disse che poteva tornare solo al Don Bosco. Aveva imparato che da lì un pezzo di pane c’è sempre.

E lì lo accettarono nuovamente.  Adesso dice che don Bosco non è uno da prendere e da lasciare: si prende e basta. “Lui non è un datore di lavoro – mi disse – ma un papà”. Peter, il figlio, fece tutti i suoi studi fino a conclusione delle superiori  e a Makuyu imparò a suonare il saxofono e si inserì nella nostra banda. A studi ultimati, fece domanda di entrare nella banda militare che accompagna il Presidente nelle manifestazioni e oggi ne fa parte con grande soddisfazione dei suoi genitori. Mi ha invitato per il giorno del giuramento nella Banda presidenziale e l’invito era indirizzato così: “Al mio secondo papà, don Felice”.

C’è di che essere orgogliosi, ma la gioia più grande è sapere che Don Bosco abbraccia i suoi figli e li segue di padre in figlio.

Don Felice Molino

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