Paolo VI: il Papa missionario. Santo dal 14 ottobre 2018

La Chiesa cattolica come la conosciamo oggi, così proiettata sul mondo in una visione globale e prospettica, è figlia dell’azione pastorale di un Papa che ha saputo interpretare i tempi e obbedire al mandato di Cristo. È Paolo VI, beatificato il 14 ottobre 2014, nel cuore del “mese missionario”, e santificato il 14 ottobre 2018, quasi a significare la centralità dell’animazione da lui compiuta di una comunità di fede amica dell’uomo ad ogni latitudine e dentro a ogni cultura.

L’agenzia Fides, specializzata sull’argomento, scriveva all’indomani della sua morte (6 agosto 1978): «Papa Paolo VI ha desiderato risolutamente che tutta la Chiesa si facesse missionaria e ha lavorato instancabilmente perché ciò divenisse realtà. Nei suoi oltre quindici anni di pontificato ha dato un forte impulso alla coscienza missionaria della Chiesa con un sistematico e insistente magistero di orientamento, dando notevole impulso all’animazione e alla cooperazione missionaria, con interventi di suprema responsabilità pastorale. È stato certamente il Pontificato di più vasta e intensa azione missionaria, durante il quale si è avuta eco costante del mandato missionario di Gesù Cristo affidato alla sua Chiesa».

Mostrando capacità intellettuali straordinarie assieme ad una notevole capacità organizzativa, Paolo VI fu capace di intervenire in maniera efficace sia sul piano dottrinale sia su quello della struttura ecclesiale.

 

Sul piano dottrinale

Quanto a insegnamento basterà citare, come fece Papa Francesco in occasione della beatificazione di Montini nel 2014, l’Esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi”  per percepire la trasformazione epocale sostenuta dal suo predecessore.  «Egli – disse – è stato uno strenuo sostenitore della missione ad gentes; ha inteso risvegliare lo slancio e l’impegno per la missione della Chiesa. L’Esortazione è ancora attuale, conserva tutta la sua attualità!».

Sul piano della promozione umana, a complemento dell’evangelizzazione, la pietra miliare costituita dall’enciclica “Populorum Progressio”. «Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa». È un documento che ancora oggi mostra la sua lungimiranza perché fondato sulla visione delle necessità umane alla luce del Vangelo, quella che si definisce la “dottrina sociale della Chiesa”. In quella fase storica l’osservazione e la proposta etica passarono dall’analisi prevalente delle situazioni sociali dei Paesi sviluppati a quella delle questioni di giustizia nei e verso i Paesi economicamente arretrati.

«I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello». Un grido planetario che per molti aspetti ha avuto risposte positive, ma che – con la drammatica fuga di milioni di profughi che attraversano i continenti – appare ancora adesso in tutta la sua drammatica estensione. Molta parte della cooperazione internazionale, quella dei governi e quella delle organizzazioni non governative, si è ispirata a quella Enciclica e lì ha trovato la spinta morale per superare pigrizie e interessi opposti. La visione di Paolo VI aveva per obiettivo la costruzione di una civiltà, quella dell’amore, che richiede la partecipazione di ogni persona – credente o no – poiché essa è l’unico esito possibile per un’umanità che voglia vivere nella pace e nella giustizia. Il progresso, non il solo sviluppo.

 

Sul piano pastorale

A dare l’esempio doveva essere la Chiesa cattolica. Paolo VI chiese che ogni congregazione religiosa divenisse missionaria, capace cioè di aprirsi all’incontro con culture diverse da quelle di origine, insediandosi soprattutto fra le popolazioni più oppresse, e generare lì nuove comunità, nuove parrocchie, nuove opere… nuovi soggetti della vita pastorale. Nelle nostre diocesi in cui viene meno la presenza del clero, stiamo vedendo l’effetto di ritorno di quella decisione, con sacerdoti provenienti dall’Africa che officiano nei centri storici o con madri superiori originarie del Sud America che danno nuovo slancio alle famiglie religiose cui appartengono. Senza contare i ritorni sul piano culturale e organizzativo delle esperienze compiute nei villaggi africani o nelle favela brasiliane.

Lo sforzo organizzativo propugnato da Paolo VI si traduce in un bilancio per gli anni del suo pontificato che mostra la determinazione nella scelta compiuta: le circoscrizioni ecclesiastiche nei territori affidati alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli passarono da 759 a 863, e soprattutto se ne registrò un deciso sviluppo, testimoniato dalla elevazione di grado: le arcidiocesi passarono da 107 a 130, le diocesi da 436 a 604, i Vicariati apostolici da 115 a 63, le prefetture apostoliche da 92 a 60. Tra i 604 Vescovi nominati nei territori missionari, la gran parte erano autoctoni: durante il Pontificato di Papa Montini i Vescovi africani ad esempio passarono da 64 a 237, il 70% del totale. Un altro aspetto della maturità raggiunta dalle giovani Chiese dipendenti dal Dicastero Missionario riguarda l’istituzione delle Conferenze Episcopali, che passarono da 11 a 48. Papa Montini nominò 27 Cardinali appartenenti ai territori di missione, e 18 di loro erano i primi Cardinali nella storia del proprio Paese (fonte Fides).

Anche Missioni don Bosco è figlia di questa maturazione della Chiesa innescata da san Giovanni Battista Montini.

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