Stop Tratta: a Bardonecchia uno sguardo “A casa di chi resta”

“A casa di chi resta” pone l’attenzione dei visitatori della mostra di Stop Tratta a Bardonecchia dal 19 agosto al 30 settembre di fronte a un punto d’osservazione inverso rispetto alla percezione ordinaria del fenomeno immigrazione.

Fa vedere come si vive nei villaggi di quell’Africa da cui giovani e adulti, uomini e donne fuggono inseguendo il sogno della sicurezza di vita. Ci aiuta a capire dove abbia origine la dinamica sociale che tanto ci preoccupa dell’immigrazione irregolare in Europa, e genera tante morti e sofferenze. Ci dovrebbe aiutare a trovare soluzioni che siano efficaci e non un palliativo, che vada sotto l’etichetta di un generico “vogliamoci bene” o di una cinica indifferenza.

 

La campagna Stop Tratta

Missioni Don Bosco con il VIS propone Stop Tratta per creare condizioni di vera scelta da parte di chi desidera costruire altrove il suo futuro: informa i ragazzi e le ragazze dei passaggi necessari per regolarizzare il viaggio e la permanenza in un Paese straniero, e sui rischi dell’affidamento a mercanti di esseri umani; offre agli stessi giovani migranti per forza la possibilità di costruire un percorso che vada dall’istruzione alla formazione professionale, per essere imprenditori di se stessi nel proprio Paese.

Questi argomenti sono già noti a chi conosce fin dalle origini Stop Tratta. Questa campagna si articola in maniera sempre nuova per essere accessibile a un pubblico più ampio. Come quello dei turisti dell’estate di Bardonecchia, località delle Valli olimpiche piemontesi, e quello degli studenti della stessa cittadina che entrano nel nuovo anno scolastico: a questo pubblico è destinato l’allestimento al Palazzo delle Feste per dare modo, nel tempo del riposo come in quello dei nuovi progetti, di aprire lo sguardo originale alla mondialità.

La mostra è stata annunciata da una serata speciale il 13 luglio, nel corso della quale sono stati usati anche i linguaggi del teatro e del cibo per scalfire l’immagine standard del “migrante”. La compagnia del Teatro Minimo ha accompagnato una lettura del libro di Fabio Geda “Nel mare ci sono i coccodrilli” che ha creato attenzione, curiosità, commozione, vicinanza alla storia di Enaiatollah Akbari, il piccolo afghano che ha percorso da solo la strada che porta dal suo villaggio fino all’Italia, passando per deserti, mari, prigionie, sfruttamento, paure, coraggio.

Storie di eroi

Ma sono state raccontate anche altre storie, con un originale associazione di pensiero fra l’eroismo di chi coltiva un sogno di libertà e chi coltiva in condizioni estreme rispettando l’ambiente. “Ci sono bottiglie che custodiscono storie che uomini e donne hanno consegnato alle onde. Ci sono bottiglie che conservano vini che narrano l’impegno di chi ha coltivato la vite e ha creduto in quella terra”: ha introdotto così il secondo momento della serata Elisabetta Gatto di Missioni Don Bosco. “Abbiamo provato a riunire nel racconto i vini cosiddetti ‘eroici’, quelli ottenuti da vigneti che più fanno fatica a mettere radici, e le storie di chi ha attraversato il deserto e il mare per provare a mettere radici lontano dalla sua terra” ha spiegato a un centnaio di persone preseti nel teatro del Palazzo delle Feste.

  • Sono così emerse le vicende di Bintou Niang, proveniente da un piccolo villaggio di pescatori a est di Dakar, in Senegal. “Ho 56 anni e sono una mamma. Una mamma che probabilmente non vedrà più suo figlio. Abdou aveva 25 anni, faceva il pescatore, portava qualche soldo a casa. Poi arrivò la crisi, il pesce cominciò a scarseggiare e gli uomini non riuscivano più a sfamare le proprie famiglie. Così Abdou è partito. È partito perché tutti i suoi amici prima di lui lo avevano fatto. È partito perché l’Europa è un sogno da realizzare”.
  • O quella di Mohamed Alì, partito dalla Somalia per andare in Kenya. “I poliziotti non ti chiedono solo i documenti, se non dai loro dei soldi ti arrestano con l’accusa di essere un membro di Al-Shabaab, la cellula somala di Al- Qaida. Abbiamo dato loro i soldi e siamo andati in Uganda. Lì è successa la stessa cosa. Poi siamo arrivati in Sudan, dove abbiamo dovuto pagare delle persone perché ci portassero fino al Sahara. Ancora adesso di notte sogno quello che mi è successo in Libia”.
  • “Il peggio è arrivato in Libia” riferisce anche Mamadou Diallo, che ha iniziato il viaggio attraverso il Sahara ad Agadès, in Niger. “Mi hanno rinchiuso in una prigione a Bahe per un anno. Ogni mattina ricevevo un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua. Nient’altro fino all’indomani. Tutti i detenuti avevano braccia e piedi rotti, ferite su tutto il corpo. Alcuni si rifiutavano di mangiare e di bere per lasciarsi morire”.
  • Sisi Dembo viene dal Gambia, ha 22 anni. “Mio padre lavorava per il governo. Nel 2011 lo hanno preso, ferito e arrestato. Io sono stato costretto a lasciare il paese insieme alla mia sorella minore”. Ho attraversato il Senegal, il Mali, il Burkina Faso, il Niger fino ad arrivare in Libia. Anche lui ha ricordi terribili: “Mia sorella è morta in prigione perché l’hanno colpita in testa, non le hanno dato medicine per calmarle il dolore, non l’hanno portata in ospedale”.

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